Computer e web

Per quanto eccezionalmente utili e capaci quasi di azzerare il costo della comunicazione globale, non hanno trasformato l’economia e la vita come le scoperte – chiave che, a Londra, innescarono la seconda Rivoluzione Industriale.

Da allora, nonostante le apparenze, non è cambiato molto. C'erano già tutte o quasi le invenzioni fondamentali della modernità. Dal telegrafo, che con i cavi intercontinentali ha realizzato il mercato globale (tra metà Ottocento e 1870) e l'informazione moderna, al telefono e all'energia elettrica che ha per- messo di trasportare forza motrice, rivoluzionando la produzione, e di sconfiggere la notte (dal 1882). Dal motore a combustione interna, al perfezionamento che rendeva, 120 anni fa, davvero affidabili e potenti i motori a vapore marini e ferroviari cambiando quindi il costo dei trasporti, alla radio, alla teoria dei microbi che rivoluzionava la medicina (Pasteur, 1864). Ancora, all'invenzione del water closet (1886, opera dell'inglese Thomas Crapper), emblema della rivoluzione idraulica domestica che ha reso ben più vivibili le dimore dell'uomo moderno.

 «Il Cittadino londinese- scriveva Keynes poteva ordinare per telefono, sorseggiando a letto il suo tè mattutino, i vari prodotti della terra, e ragionevolmente attendersene la rapida consegna alla sua porta; poteva allo stesso tempo e con lo stesso strumento lanciare le proprie ricchezze puntando sulle risorse naturali e sulle nuove imprese in ogni angolo del mondo e partecipare, senza fatica e preoccupazioni, ai loro frutti futuri e ai loro vantaggi; oppure poteva decidere di legare la garanzia delle proprie fortune alla buona volontà dei cittadini di una qualsiasi delle municipalità di qualsiasi continente, seguendo l'ispirazione e le informazioni. Poteva procurarsi quindi, se lo desiderava, mezzi di trasporto sicuri e a buon mercato per ogni Paese e clima, senza passaporto o altra formalità». La crescente integrazione mondiale sem-brava allora, ricordava Keynes, «normale, certa e permanente nella direzione di sempre più avanzata interdipendenza. Ogni deviazione da questo schema appariva aberrante, scandalosa ed evitabile». Excelsior era il motto di quella stagione.

            La tecnologia non abbandonò l'uomo nel 1914. Si limitò a mostrare, con la guerra, il suo volto peggiore. Fu la politica a trasformare il mondo, frenando, chiudendo, nazionalizzando quello che era stato internazionale. Solo con gli anni Ottanta del Novecento, cioè dopo più di mezzo secolo, il mondo avrebbe recuperato il grado di apertura dei mercati goduto già tra il 1880 e il 1914, dopo lo smantellamento liberale del mercantilismo, nella stagione della Pax britannica garantita dal gold standard e dalla flotta di Sua maestà. Negli ultimi sette -otto anni la rivoluzione informatica e la certezza per molti di vivere, tra il 1995 e il 2000, una vera new economy hanno stimolato una forte ripresa di studi e di confronti con il passato, nel tentativo di rispondere sostanzialmente a tre domande: fino a che punto siamo in una nuova epoca di innovazione tecnologica? Fino a che punto la globalizzazione dei mercati è un fenomeno nuovo e mai così avanzato? Fino a che punto viviamo in un mercato finanziario globale e senza precedenti, nella stagione delle con- trattazioni 24 ore su 24 affidate in automatico agli schermi dei computer? Le risposte fornite da uno stuolo di studiosi, fra i quali vari allievi del compianto Carlo Maria Cipolla, maestro nello studio del- l'innovazione che ha creato il mondo euro- atlantico moderno, possono essere sorprendenti. Spesso non indicano un progresso che dissoda terreni vergini. Ma un più sobrio "ritorno al futuro". Una premessa indispensabile ricorda che la centralità economica e finanziaria dell'Occidente è recente. Fra l'VIII e il XVIII secolo è stata l'Asia il centro del commercio mondiale, e ancora nella seconda metà del Settecento India e Cina ne monopolizzavano ben oltre la metà. L'Europa, però, cresceva in tecnologia e quella che era stata, soprattutto fino a metà Ottocento, una storia britannica (sul continente solo il Belgio convergeva con l'economia inglese) diventò, tra il 1860 e il 1914, una sto- ria europea e nordatlantica. Lo dimostra la convergenza dei prezzi, criterio fondamentale dell'integrazione, come ricordano Michael D. Bordo, Alan M. Taylor, e Jeffrey G. Williamson, che hanno curato una massiccia analisi collettiva su Globalization in Historical Perspectìve (University of Chicago Press, 2002).   

 

La tecnologia fu vitale e, come indica una classifica stilata nel 2000 dall'americana National academy of engineering, le grandi invenzioni, nella seconda metà dell'Ottocento, c'erano già tutte. Il nucleo fondamentale è di cinque famiglie di mega-balzi che hanno i rispettivi capostipiti tutti risalenti al periodo 1850-1900: elettricità, motore a combustione interna, petrolio e derivati, comunicazioni, idraulica e sistemi sanitari urbani (Robert J. Gordon, Does the New Economy Measure up to the Great Inventions of the Past, Naeber, 2000). La classifica della Naeber mette Interne! solo al 13° posto su una scala di 20. E Gordon ritiene che computer e Internet, per quanto eccezionalmente utili e capaci quasi di azzerare il costo globale della comunicazione, non abbiano trasformato l'economia e la vita di ogni giorno come invece fu fatto dalle invenzioni-chiave della seconda rivoluzione industriale del 1860-1914. NOn è quindi il caso, per Gordon e altri, di parlare di terza rivoluzione industriale e di new economy. Dopotutto, la vita di ogni giorno era molto più diversa nel 1950 rispetto al 1900 di quanto non sia oggi rispetto a mezzo secolo fa, e le tecnologie del 1940-45 furono perfettamente in grado di affrontare lo sforzo bellico. E, nel caso americano, di gestire 12 milioni di uomini sotto le armi anche senza il computer moderno. Ma la globalizzazione oggi è più forte, anche se il percorso segui- to è stato, nel Novecento, particolarmente accidentato e solo negli ultimi dieci anni sono stati superati (ma con vari distinguo e dibattiti) non è quindi il caso, per Gordon altri, di parlare di terza rivoluzione industriale e di new economy. Dopotutto, la vita di ogni giorno era molto più diversa nel 1950 spetto al 1900 di quanto non sia oggi rispetto a mezzo secolo fa, e tecnologie del 1940-45 furono perfettamente in grado di affrontare lo sforzo bellico. E, nel caso americano, di gestire 12 milioni di >mini sotto le armi anche senza il computer moderno. Ma la globalizzazione oggi è più forte, anche se il percorso seguì- i è stato, nel Novecento, particolarmente accidentato e solo negli timi dieci anni sono stati superati (ma con vari distinguo e dibattiti fra storici dell'economia) i livelli dell'anno-culmine della Belle époque, il 1913. «Il fenomeno della globalizzazione oggi è diverso: l'integrazione è più profonda e più larga che un secolo fa», scrivono Bordo, Barry Eichengreen e Douglas A. Irwin (/s Globalization Today Really Different than Globalization a Hundred Years Ago?, Nber, 1999). Le protezioni tariffarie non sono mai state così basse, grazie soprattutto alla svolta, dopo la Seconda guerra mondiale, degli Stati Uniti storicamente protezionisti. E il commercio internazionale come percentuale del Prodotto interno lordo, se si prende la misura più onnicomprensiva (e ahimè meno precisa e meno attenta a varie eccezioni), è passato dal 4,6 del 1870 al 7,9 del 1913, al 5,5 del 1950, al 10,5 del 1973, al 17,2 del 1998, per arretrare - ma solo leggermente - nel 2001 e nel 2002. Più lento è stato il recupero della mobilità transfrontaliera dei capitali, che solo recentemente ha superato i livelli del 1913. E anche qui occorre fare attenzione, osservano Maurice . Obstfeld e Alan M. Taylor nella miscellanea curata da Bordo, Taylor e Williamson. Se si prendono i soli sette Paesi con statistiche storiche affidabili (Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, Stati Uniti, Canada e Giappone), si evidenzia come complessivamente avevano un rapporto tra investi- menti esteri e Pii superiore al 50 nel 1870-1914, ben oltre il 7-20 calcolato su dati meno sicuri per l'insieme dei Paesi progrediti di allora. A livelli che superano il 50, per le sette economie citate, si è tornati solo dopo il 1990. Con una differenza, oltretutto, ricorda Bordo: «I capitali internazionali affluivano più facilmente ai Paesi poveri prima del 1914 di quanto non facciano oggi». Anche l'economia moderna ha il suo limes, come l'impero roma- no, chi è dentro e chi è fuori. Non c'è più l'idea di un progresso economico che trascini tutti, così come non c'è più l'idea che sia questa la panacea generale. Gli Stati Uniti, ben più autosufficienti, non hanno mai replicato il ruolo finanziario che fu britannico, e Paesi che un secolo fa contavano - come l'Argentina e altri dell'America Latina - sono ai margini. La decolonizzazione è stata spesso un grande insuccesso. La tecnologia di base è accessibile a tutti o quasi, ma non tutti sanno metterla a profitto e trasformarla in innovazione. L'ineguaglianza globale fra grandi aree è in calo dal 1980, ma è pur sempre una pattuglia di Paesi, dei quali l'Italia riesce da un secolo a far parte, quella che corre più in fretta. In un mondo che procede a zig-zag, a volte il borghese londinese di Keynes, con la Terra ai suoi piedi, sembra un modello insuperato e insuperabile. ®