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AFurlan - The Crisis of Traditional Values and Modernism - Compendio della lezione magistrale di Galimberti a Milano
by AFurlan - (2012-12-19)
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Intervento di Umberto Galimberti al convegno tenutosi a Milano il 18 novembre 2012

 

Galimberti, nel suo intervento, tratta del “sacro” e del ruolo che esso riveste e ha rivestito nel mondo e nella Storia.

Come parola, “sacro” deriva da una radice indoeuropea che significa “separato”, ad indicare appunto uno spazio diverso da quello in cui si svolgono le comuni attività della vita. La particolarità del sacro risiede nel suo essere un punto di incontro e contaminazione di contrari, dove qualità opposte (bello/brutto, giusto/sbagliato, …) perdono di significato, fondendosi in un tutt’uno. Nel sacro non può intervenire la ragione, che è lo strumento con cui l’uomo riesce a discernere gli aspetti molteplici della realtà, e infatti la razionalità umana ha per proprio fondamento il principio di non contraddizione, già formulato dai filosofi greci, secondo il quale un oggetto A non può essere contemporaneamente anche un oggetto B. Tale principio, che ben si adatta al mondo profano, cessa di funzionare quando viene applicato alla sfera del sacro, dove, come detto prima, tutte le cose sono ambivalenti e quindi A può anche essere B. A tal proposito Galimberti riporta l’esempio della bottiglia appoggiata sul tavolino accanto a lui: essa è, appunto, una bottiglia, secondo il principio di non contraddizione, ma se improvvisamente Galimberti la scagliasse contro la prima fila, essa diventerebbe anche un’arma non convenzionale. L’uomo adulto fa fatica ad abbandonare il rassicurante principio di non contraddizione, mentre i bambini e i poeti dimostrano di sapere farne a meno; è per questo che la loro visione del mondo si discosta molto da quella dell’“uomo comune”. D’altra parte, non è dalla ragione che scaturiscono le grandi opere d’arte; esse sono piuttosto il prodotto della follia, l’unico stadio in cui l’uomo ragionevole può attingere al sacro.

Rispetto alla follia, però, la ragione è molto più rassicurante, in quanto è la risposta immediata dell’uomo che vuole allontanare da sé l’angoscia dell’imprevedibile. In tal senso, i riti religiosi assolvono il ruolo di allontanare ciò che non si conosce e, quindi, ciò che si teme; le prime religioni, infatti, prevedevano i riti come strumenti per allontanare la divinità o per annullarne gli effetti, non certo per mettersi in comunicazione. I codici religiosi elaborati dalle tribù primitive assumono pertanto il compito di distaccare la dimensione folle da quella razionale, e di “confinare” l’irrazionale nel mondo ultraterreno, nella speranza che la ragione possa rimanere in intatta nel mondo terreno. Eppure la dimensione irrazionale si rivela a noi, anche se non cercata, all’interno dei sogni, che, come Freud e Jung analizzarono, sono la porta con cui la follia, l’ambiguità e l’inconscio si manifestano anche nelle menti più razionali.

La paura della follia, d’altronde, non è ingiustificata: chi vi entra, non è detto che possa più uscirne. La tragedia di Edipo ne è un chiaro esempio: Edipo rimase fermo nella certezza della razionalità e della non contraddittorietà del cosmo, finché non gli venne rivelato che aveva inconsapevolmente ucciso il proprio padre e che la donna che aveva sposato era la sua stessa madre; scandalizzato, e soprattutto incapace di continuare a vivere in un mondo dove tutto per lui era rovesciato e  commisto, preferì accecarsi e fuggire da Tebe.

Anche il Dio cristiano non riconosce limiti razionali: dice a Mosè di nascondersi dietro a un cespuglio, perché nessun uomo può vederlo e sperare di rimanere vivo; il volto di Dio è in realtà “tutti i volti”, e quindi sfuggirebbe alla comprensione e, anzi, distruggerebbe la mente umana. Dio supera anche la dimensione etica, poiché essa è soltanto il frutto della ragione umana: nel racconto biblico di Giobbe, Dio non risponde ad alcun principio morale; piuttosto, Giobbe deve riconoscere che la comprensione che si può avere di Dio e della sua volontà è assolutamente limitata e parziale.

Questa analisi conclude la prima parte del discorso di Galimberti, confermando la scissura ontologica tra la ragione umana e il sacro, dimensione verso la quale l’uomo si sente diviso tra la volontà di avvicinarvisi e l’onnipresente terrore che sempre accompagna l’ignoto.