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UMBERTO GALIMBERTI'S AUDIO LESSON
Baldo Sara V'A A.S.2012-2013
Il dio è giorno e notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come il fuoco, quando si mescola ai profumi odorosi, prendendo di volta in volta il loro aroma. L'uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l'altra, per il dio tutto è bello, buono e giusto.
Eraclito
Umberto Galimberti
Cristianesimo: la religione dal cielo vuoto
Allora noi siamo qui a discutere cosa è sacro e cosa è profano, che sono due cose completamente diverse. Sacro è una parola indoeuropea che vuol dire separato e fa riferimento a potenze che gli uomini avvertono come superiori a loro e in qualche modo le temono e al tempo stesso ne sono attratti come lo si può essere per l'origine da cui si è provenuti. Tutta l'umanità è uscita dal sacro, anzi l'umanità nasce proprio con questa uscita.
E che cos'è questo sacro? Il sacro è caratterizzato dalla confusione di tutti i codici. Il sacro è benedetto e maledetto, contamina il bene con il male, il giusto con l'ingiusto, il vero con il falso. In un certo senso è la proiezione della nostra follia, su un grande schermo l'umanità ha proiettato la follia che ospita dentro di sé. Il sacro prevede degli spazi separati rispetto al mondo profano, si chiamano tempi, chiese, moschee. Tempi separati, i tempi festivi sono sacri, i tempi feriali sono invece affidati alla quotidianità del lavoro, della produzione, della convivenza nella comunità. Prevede anche dei sacerdoti, i quali hanno un piede nel sacro e un piede nel profano, perché devono mediare tra queste due istanze.
Se vogliamo dire che cos'è, se vogliamo tentare una definizione possiamo dire che il sacro è il luogo della contaminazione dei contrari. In qualche modo la sua configurazione è quella di essere indifferenziato, nel mondo dell'indifferenziato non c'è alcuna possibilità di convivenza e neppure nessuna possibilità di dialogo, perché delle cose sono ambivalenti, giocano su molti registri, non c'è una definizione delle cose.
Eraclito dice "il dio è giorno e notte, sazietà e fame, pace e guerra, inverno e estate, e si mescola con tutte quelle cose", ecco in un contesto del genere l'umanità non può vivere. Sempre Eraclito dice che "l'uomo ritiene giusta una cosa e ingiusta l'altra, mentre per il dio tutto è bello, tutto è buono, tutto è giusto". Giusta una cosa e ingiusta l'altra, che differenza c'è tra queste due posizioni, che l'umanità esce dal sacro attraverso la ragione e che cos'è la ragione. La ragione è una macchina che instaura le differenze, che stabilisce che questa bottiglia è una bottiglia e non altro, come dice il fondamento della ragione che è il principio della contraddizione. Ma è vero che la bottiglia è la bottiglia e non è altro? No, non è vero, perché io in questa bottiglia quando la tengo in mano vedo che nessuno si agita perché tutti pensano, secondo il principio della contraddizione, che la bottiglia è la bottiglia e non altro, ma io questa bottiglia la potrei scaraventare in prima fila e allora la bottiglia cambia significato e diventa un'arma impropria.
Tutte le cose sono ambivalenti, onnivalenti quanto il loro significato e in un contesto di ambivalenza non è possibile convivere. Se io dico apro quella porta, se la porta è la porta e non altro, non c'è nessuna difficoltà che nessuna apra la porta. Ma se quella porta è la porta ma anche la porta dell'inferno, allora subentrano delle titubanze come sempre capita negli scenari allucinogeni per esempio della schizofrenia. E allora che cosa succede? Succede che per contenerci da questa ambivalenza, da questa polivalenza di significati che è il sacro, abbiamo dovuto inventarci la ragione, la quale si fonda su quel principio cardine che è il principio di non contraddizione che dice che una cosa è se stessa e non altro. La ragione dice la verità? No, la ragione non dice la verità. La verità abita il sacro, una cosa è se stessa ma anche altro. Lo sanno bene i bambini, che non sono arrivati all'età della ragione, i quali utilizzano le cose secondo la molteplicità di accezioni, di significati per cui i bambini vanno continuamente curati, perché non essendo arrivati all'età della ragione non stanno al principio di una contraddizione. Non dicono il bicchiere è il bicchiere e non altro, il bicchiere diventa tante cose anche pericolose. C'è un'oscillazione di significati in derivata all'età della ragione per cui i bambini vanno continuamente accuditi. Ma questa fuoriuscita dall'età della ragione è una caratteristica anche dei poeti, quando Leopardi dice "dimmi che fai tu Luna in cielo?".
Dal punto di vista logico-razionale si sa benissimo cosa fa la Luna in cielo, gira intorno alla Terra come la Terra gira intorno al Sole, la domanda non ha nessun senso. Però acquista senso alla sola condizione in cui faccio oscillare la parola ragione, la parola Luna, e da astro quale è, la Luna è il satellite e nient'altro, smargino su questo nient'altro e dico la Luna è la Luna, ma anche un'interlocutrice. E solo con questa emarginazione, con questa aggiunta di significato si giustifica il testo poetico del Leopardi e soprattutto la sua domanda "dimmi che fai o Luna in cielo".
I folli abitano il sacro, abitano l'oscillazione dei significati, abitano la confusione dei codici, non hanno la speranza dei bambini di arrivare all'età della ragione e neanche quella dei poeti di rientrare dopo la e smarginazione dei significati nella logica razionale. Anche i poeti rischiano quando creano figure d'arte o di poesie potenti. Heidegger gli definisce i più arrischianti. E Jaspers, psicopatologo e filosofo del Novecento, dice ogni volta che noi abiuriamo la perla della conchiglia dimentichiamo che la perla è la malattia della conchiglia. Alla stessa maniera quando ammiriamo un'opera d'arte dimentichiamo la malattia sottesa a questa opera d'arte, perché solo nell'immersione della follia, ossia del sacro, ossia della confusione dei codici, solo a quella dimensione è possibile un evento creativo.
La ragione non crea niente, la ragione è un sistema di regole con cui noi ci intendiamo, ma dalla ragione, proprio perché è un sistema di regole, non nasce nulla. Però è molto utile, perché definendo, ponendo fine al significato delle parole, determinando, ponendo termine al significato che le cose possiedono noi abbiamo la possibilità ogni volta che nominiamo una parola di dire una cosa precisa e non altro, però dobbiamo saperlo.
La ragione è una convenzione che gli uomini si sono dati, una convenzione che consente di ridurre quello che è lo stato più terribile dell'umanità, che consiste nell'angoscia dell'imprevedibile. L'umanità ha fatto degli sforzi enormi per uscire dall'angoscia dell'imprevedibile, perché la dove tutto è prevedibile non c'è possibilità appunto di organizzare un mondo.
La prima modalità con cui l'umanità è uscita dall'imprevedibile saranno stati i riti delle popolazioni primitive, dov'era stabilito che cosa era il totem e cos'è il tabù, che cosa è lecito e che cosa è proibito, le cose concesse e le cose negate. Attraverso questi codici, l'umanità ha incominciato ad orientarsi tra quello che era possibile fare e quello che no era possibile fare.
Young racconta, per esempio, che un giorno andò a visitare una tribù dei vacanti, assistette ad una loro festa di primavera e vide che costoro tagliavano la fossa nella terra a guisa di genitali femminili, intorno a questa fossa gettavano delle lance a guisa di genitali maschili e intorno cantavano "questa non è una fossa, non è una fossa, ma una vagina". Young diceva inoltre che questa popolazione trasferiva l'energia sessuale in energia lavorativa, ma questo secondo aspetto non ci interessa, ci interessa che i vacanti dicono che una fossa non è una fossa, sì è una fossa ma anche, e in questo ma anche noi abbiamo la fuoriuscita della ragione e l'ingresso nella dimensione sacrale dove accade la confusione dei codici. Questi riti hanno una grande potenza emotiva però funzionano solo all'interno della tribù. Fuori della tribù funzionano altre associazioni, per cui le regole tribali che cercano di contenere il sacro attraverso queste indicazioni, queste associazioni, queste configurazioni e queste equivalenze funzionano solo all'interno della tribù.
I greci pensano che questa non è sufficiente se vogliamo parlare come tutti gli uomini dobbiamo creare delle regole razionali. Queste regole razionali sono le regole che noi conosciamo in cui Platone inaugura quelli che si chiamano il principio di contraddizione e il principio di casualità.
Il principio di causalità è un principio molto potente perché se io in presenza di una causa prevedo l'effetto, l'accadere dell'effetto non mi spaventa, ma se non conosco la causa salto per aria ogni volta che vedo una cosa incausata.
Questo sforzo che l'umanità ha compiuto di pervenire la ragione, è stato uno sforzo immenso ma non identifichiamo la ragione con la verità. Noi siamo ragionevoli ma anche folli.
Basaglia dice chiaramente "la follia è una condizione umana al pari della ragione, attenzione a considerarci solo ragionevoli". È sufficiente che voi riflettiate sui vostri teatri notturni, nei sogni.
Nei sogni non funziona il principio di non contraddizione, non funziona il principio di identità, nel sogno io sono presente e sono assente, sono maschio o magari anche femmina, sono adulto e magari anche bambino. Non funziona il principio di causalità perché spesso nei sogni è l'effetto che produce la causa. Non funziona la dimensione spaziale, un sogno incomincia nell'impero romano e finisce a New York. Non funziona la dimensione temporale, la ragione va in blackout.
Nel sonno la ragione, o coscienza, o psiche assumiamo sempre le equivalenze che danno più significato delle differenze nel sonno tutto l'ordine razionale si acquieta e viene fuori quello che propriamente noi siamo, cioè la nostra follia.
La nostra follia è ciò per cui io sono diverso da te, ciò per cui io sono me stesso. Noi che dal punto di vista razionale siamo tutti uguali. Gli elci che sono stati il popolo più intelligente mai apparso sulla faccia della terra, nella loro coniugazione verbale avevano, come noi in italiano, il singolare e il plurale.
Il plurale è il mondo della razionalità, io quando parlo a molti uso il linguaggio razionale. Il singolare, invece, è il luogo imminente dove traspare la follia, perché nelle nostre associazioni private, nei nostri sovra pensieri, nei nostri incantamenti, ogni tanto si sente qualcuno che cerca di disincantarci, perché è inquietante quando uno si incanta, se ne va per i pensieri suoi che non sono condivisibili.
In questi scenari noi siamo nelle adiacenze o nella comunicazione con la nostra follia. Infatti ci vergogneremo come ladri se dolessimo esplicitare quello che è il soliloquio dell'anima, andiamo pensando. Nel singolare viene introdotto anche il duale, nonché il dialogo tra due.
Il dialogo tra due che è un dialogo molto intenso, molto simbolico, molto potente, ma anche molto forte.
Questa bottiglia con cui io e te ci siamo incontrati e abbiamo bevuto per la prima volta all'inizio del nostro amore, questa bottiglia non rientra più nella serialità delle bottiglie, non è più uguale alle altre bottiglie, è una bottiglia che fuoriesce da ciò che propriamente è, e diventa la simbolica del nostro incontro, per cui tutti possono spaccare tutte le bottiglie, ma non quella bottiglia. Questa bottiglia si carica di una potenza di significato, che è una potenza folle.
La stessa potenza folle per cui dovendo vendere la casa dei nostri genitori non ci riusciremo mai, perché di fronte a quella casa, nei confronti di quella casa abbiamo una carica emotiva sentimentale simbolica che ce la fa valutare aldilà di ogni regola e di ogni ragionevolezza. E per poterla vendere e mettere sul mercato in modo razionale dovremmo darla ad una agenzia che è la scarica di tutte queste valenze simboliche e la consegna ai suoi semplici metodi quadri. Capite allora come la follia ci abita, ci accompagna, ci caratterizza.
Nella dimensione attuale accadono delle comunicazioni potentissime. Se io dico "ti amo" potrei chiudere li il discorso dal punto di vista logico-razionale, ma se sentite due innamorati che dicono "sia ti amo", questi non finiscono mai di andare a cercare il quando, il come, la coerenza fra quelle dichiarazioni, comportamenti, mi dice la verità, mi sta ingannando, guardami negli occhi, tutto un discorso infinito perché nella dimensione logico-razionale è insufficiente a tirar fuori tutta quella dimensione simbolica di cui si carica il linguaggio quando è contaminato dalla follia. Al punto che Freud dice che l'innamoramento è sostanzialmente un delirio, che ha però il vantaggio che dura poco, perché dopo subentra la struttura della ragione. Un delirio perché quando uno dice "senza di te mi cade il mondo", infatti il mondo non cade quindi sta oggettivamente delirando, però in questo delirio sta facendo vedere l'intensità espressiva simbolica che è possibile solo assumendo le parole aldilà della ragione attingendole sulla loro follia. Cosa che dicono gli amanti che passano la vita insieme, non sanno cosa vogliono gli uni dagli altri e allora è evidente che vale per i piaceri carnali che amano passare così tanto tempo insieme. Vogliamo allora dire che hanno cose da dire che non riescono a dire e perciò parlano in modo enigmatico, in dubbio. Allora c'è un'insufficienza del linguaggio nella relazione duale, c'è un'insufficienza del linguaggio nelle relazioni d'amore, che Platone giudica che senz'altro è pieno di follie divine, anzi lui dice la più potente, c'è un'insufficienza del linguaggio, l'amore platonico non è guardarsi negli occhi, l'amore platonico è carico di sensi, di carne e di corpi.
La cosa interessante è che si ricorre al corpo perché il linguaggio è insufficiente, perché la ragione non basta, hanno cose da dire che non riescono a dire, e perciò parlano in modo enigmatico e buio. L'enigma appartiene alla follia, a differenza del problema che invece prevede una soluzione. L'enigma no. Detto questo, gli uomini hanno, per difendersi dal sacro, ovvero dalla contaminazione dei significati, dall'impossibilità di convivere quando i significati oscillano, per difendersi dal sacro hanno collocato questo scenario della follia invasiva fuori dalla loro comunità, e precisamente nel mondo degli dei.
Noi abbiamo degli esempi, quelle due grandi tradizioni che sono la cultura greca e la cultura cristiana. Racconta Omero che un giorno Agamennone sottrasse ad Achille la sua schiava Briseide, e Achille smise di andare in battaglia e quando Achille non combatteva le cose per gli achei non andavano tanto bene, allora Ulisse organizzò una strategia. Non si poteva chiedere ad Agamennone capo degli achei di chiedere scusa, di riconsegnare la schiava perché avrebbe perso la sua regalità. E allora Ulisse organizzò dei giochi, nei giochi si mettevano in mezzo dei premi, i tori, le belle cinture, le fanciulle ben ornate. Achille rivinse la gara e si riportò a casa Briseide. A quel punto Agamennone disse ad Achille "Achille tu sai quanto sono tremende le patai, le violenze, le dissennatezze che gli dei mettono nella mente degli uomini. E non era una scusa, perché Achille risponde "conosco queste cose, so quanto gli dei possono rendere dissennato un uomo e fargli compiere le cose più tremende e terribili".
Questo significa che l'attività umana vuole mettere altrove, altrove nel mondo degli dei tutto quello che potrebbe sconvolgerla e rompere la qualità delle relazioni, che in una comunità si devono esprimere nella quiete come condizione della pace.
I sacrifici agli dei non avvengono per ottenere le cose, non c'è nessun sacrificio che chiede a qualcuno "dammi qualcosa", se non nelle religioni odierne, i sacrifici vengono fatti per tenere lontani gli dei, perché la loro invasione era terrificante.
Un altro scenario dove si verificano le stesse cose in cui si mette in luce queste dimensioni indifferenziate del sacro è per esempio lo scenario descritto da Sofocle nell'Edipo re, o nell'Edipo a Colono, in cui ad un certo punto Edipo vuole sapere la sua origine dopo aver conquistato la città per aver allontanato la peste da Atene e incoronato dai tebani re sovrano e gli era capitato di sposare la regina che era sua madre. Un certo giorno Edipo vuole conoscere la sua origine e il sacerdote Tiresia gli dice "è meglio per te non sapere". Questo sta a dire che non è che possiamo andare nel mondo della follia con tranquillità e poi essere sicuri di uscire. Ma Edipo insiste e alla fine Tiresia dice "si, lui ha deciso tuo padre e hai sposato tua madre". Edipo è entrato nella confusione dei codici, è figlio della madre che sposa, è entrato nel sacro, nell'indifferenziato. La madre non è la madre, ma è anche la sposa, lui non è solo figlio, ma anche il marito della sposa che è sua madre, la confusione dei codici.
Giustamente Freud giudica il complesso edipico come la macchia dello sviluppo psichico che gli psicanalisti non capiscono assolutamente. Si gioca in questo territorio, è la fuoriuscita da questo territorio in cui i bambini nuotano. Dopodiché non si aspetta altro di fare quel gesto di accettarsi perché non si può più vedere il mondo nelle sue differenze dopo che si è entrato nello scenario spaventoso dell'indifferenziato. Edipo allora si accetta e se ne va nel bosco solitario pensando alla sua sorte infelice. Nell'Edipo re c'è un vasto scenario della dimensione del sacro nella comunità delle vacanti, di ogni organismo della città, il sovrano perde la regalità, crolla il palazzo del re, le donne salgono sul monte Citerone citando il dio, i vecchi si comportano come i bambini, il disordine totale. Il coro ad un certo punto chiede "ma non possiamo allontanare il dio" e dopo un po' di passaggi è il coro stesso che inizia a rispondere "nessun uomo può allontanare dio, bisogna che il dio si allontani da solo". E questo perché le potenze della follia enormemente superiori a quella piccola rete, a quella piccola capacità di contenimento che è costituita dalla ragione.
Gli psichiatri del 1800 quando facevano la prognosi ad una persona che veniva dimessa dal manicomio, prima della firma del medico c'era l'espressione D.C. (deo concedente) se il dio concede di abbandonare la mente di quest'uomo, quest'uomo forse può tornare nella sanità mentale. Questo per quanto riguarda la cultura greca che è una delle due fonti della tradizione occidentale.
L'altra è la tradizione ebraico - cristiana che si comporta esattamente alla stessa maniera.
Quando Abramo riceve da Dio l'ordine di sacrificare suo figlio, è un Dio che ordina l'infrazione del quinto comandamento, è un Dio che ordina l'infrazione dell'etica.
Kierkegaard ha dedicato pagine stupende a questo episodio di timore e di tremore. Dice che la dimensione religiosa oltrepassa l'etica, di gran lunga oltrepassa l'etica. Non si può entrare nello stadio religioso se non si è oltrepassato l'etica, perché che cos'è l'etica? L'etica non è altro che una serie di regole di convivenza. Ma il Dio abita aldilà delle regole di convivenza, non sta alle regole del "do ut des", non sta alle regole dell'equivalenza.
I due si incamminano, Abramo ed Isacco, sul monte, ad un certo punto Isacco dice "ma padre noi abbiamo la legna, abbiamo il fuoco, ma dov'è la vittima" e il padre "non ti preoccupare, il Dio provvederà alla vittima". Quello che mi importa però è che lo stadio religioso non coincide con lo stadio etico, ma lo oltrepassa di gran lunga. Lo vediamo anche quando Jahvè da a Mosè le leggi, i comandamenti. Prima di apparire Jahvè dice a Mosè "nasconditi dietro a quel rogo, perché nessuno può vedermi sopravvivere". Con il Dio non c'è il faccia a faccia.
Edmond Jabes, che è un poeta francese morto un 2-3 anni fa, ebreo, dice "certo che con Dio non può esserci un faccia a faccia, perché tutte le facce sono sue". Ancora una volta vedete la dimensione del sacro come indifferenziato, come indiscernibile, come ciò da cui non è evocabile un'identità e la differenza. Gli dei greci si concedono tutte le metamorfosi. Che cosa vuol dire metamorfosi, che l'identità viene continuamente commutata in altre figure, per cui Zeus è si il padre degli dei ma anche tuono, è anche fulmine e anche toro, non tiene neppure la propria identità. Ma anche il Dio cristiano, in quanto onnipotente, può essere e fare tutte le cose e i loro contrati. Ultimo riferimento lo facciamo a proposito di Giobbe, il quale chiede a Dio di ragionare, dice "io sono un uomo giusto e tu? Ora in che condizione mi trovo, ho la lebbra, mia moglie se n'è andata, gli amici mi hanno abbandonato, anzi quando vengono a trovarmi mi dico ‘ma forse, se ti sono capitate tutte queste disgrazie, non sei tanto giusto come credevi'". Qui comincia con la grande metafora che quando uno si ammala in fondo in fondo è colpevole, anzi tutta la medicina preventiva gioca su questo registro ‘i tuoi vizi ti faranno ammalare'. A prescindere da queste conseguenze, perde il bestiame, i figli si allontanano, gli amici vengono a fargli questo ragionamento ‘forse non sei tanto giusto', lui porta Dio a giustizia, se sei un Dio giusto queste cose non gli possono capitare, cioè cerca di far ragionare Dio, ma non si può far ragionare Dio. Dio abita altrove, Dio sta aldilà della regola "do ut des", della regola della ricompensa per meriti, non c'è questa cosa. Dio è fuori da questo scenario. Quando mia raccontano questo episodio di solito sottolineano la pazienza di Giobbe, una virtù inutile, perché uno quando sta male non può che essere paziente e sopportare il male che ha. Invece il gioco più bello lo fa Dio alla fine, quando viene interrogato da Giobbe e risponde con estrema chiarezza "ma dimmi tu dov'eri quando io mettevo la terra sui suoi pilastri, dimmi dov'eri quando io riempivo il cielo di stelle, e le acque di animali marini, dov'eri tu? Sono domande da fare a me tu che hai la lebbra, è scappata la moglie e i tuoi amici che abusano, i tuoi figli non ci sono, gli animali sono morti, sono domande da fare a me? C'è proporzione tra questo tuo interrogare la giustizia e la mia potenza?". L'ira di Dio si protrae per due colonne, che di solito non vengono mai lette, ma che stanno a significare proprio l'aldilà del divino rispetto all'umano, il suo abitare il mondo del sacro e dell'onnipotenza, che non ha niente a che fare con la giustizia retributiva, non ha niente a che fare con le regole della ragione, e anche l'etica che non è altro che l'applicazione pratica delle regole della ragione.
Ma che senza la follia delle Muse si avvicina alla poesia convinto di diventar poeta per averne acquistato la tecnica, inutile è a lui la sua arte perché, di fronte alla poesia dei folli, la poesia del saggio ottenebrata scompare.
Platone (Fedro)
Cristianesimo: la religione dal cielo vuoto
Prof. Umberto Galimberti
Teatro Elfo Puccini
Milano
18 novembre 2012